Infiammazione da depressione e rischio cardiovascolare

 

                                  

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 13 giugno 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVE AGGIORNAMENTO]

 

Dopo l’interessantissimo aggiornamento del professor Rossi sulle basi neurali della depressione, al quale si rimandano tutti coloro che non l’abbiano ancora letto[1], ci occupiamo di quanto sta emergendo dagli studi più recenti sul rapporto fra fisiopatologia depressiva, infiammazione e rischio cardiovascolare. È stato suggerita da tempo la possibilità che la depressione, particolarmente nelle forme ad andamento cronico con più accentuate manifestazioni sintomatiche, sia considerata una malattia infiammatoria[2], ma il ruolo dell’infiammazione presente negli stati depressivi in rapporto allo sviluppo di patologia organica non si è rivelato facile da indagare.

Intanto, Sarah Hiles e colleghi australiani[3] hanno indagato il ruolo che possono avere markers dell’infiammazione, quali l’interleuchina-6 (IL-6) e la proteina C-reattiva, nel chiarire l’associazione fra depressione ed ospedalizzazione per malattie cardiovascolari. Lo studio, che sarà pubblicato sul Journal of Behavioral Medicine[4], ha valutato per la presenza di sintomatologia depressiva e di disturbi internistici un vasto campione di persone (5140 persone/anno) di età compresa fra i 55 e gli 85 anni, che è stato seguito nel tempo (mediana di 937 giorni) in rapporto all’ospedalizzazione per angina, infarto del miocardio e infarto cerebrale. Normalizzando i dati per età e sesso, sono stati messi in rapporto con futuri eventi patologici la IL-6, la proteina C-reattiva, l’indice di massa corporea (BMI) e la ratio vita/anche (WH).

L’analisi ha mostrato che la IL-6 dava conto del 10,9% e la proteina C-reattiva dell’8,1% dell’effetto della depressione sugli eventi cardiovascolari. I due indici di obesità davano conto di effetti indiretti, rispettivamente, in percentuali del 7,7% (BMI) e del 10,4% (WH).

Questo studio, il più recente fra quelli da noi esaminati, suggerisce che i markers infiammatori possono spiegare in parte l’associazione fra depressione e patologia cardiovascolare, tuttavia è probabile un intervento di altri fattori condivisi tra disturbi depressivi e i danni dei vasi con conseguenze per cuore e cervello.

L’ipotesi forse più affascinante e che attualmente riscuote anche numerosi consensi fra i ricercatori, postula l’infiammazione insieme con lo stress, fattore eziologico già da tempo riconosciuto, quale causa di depressione. L’infiammazione cronica, rilevata nei pazienti affetti da depressione per un lungo periodo della vita, è un fattore sicuro di rischio cardiovascolare, ma molti studi rivelano un rapporto complesso, perché sono stati descritti sia casi in cui sicuramente uno stato infiammatorio ha preceduto l’insorgenza di depressione e malattia cardiaca, sia casi in cui l’infiammazione appare solo dopo e, verosimilmente, come conseguenza di disturbi depressivi o patologia cardiovascolare.

Lo scorso anno, nel tentativo di stabilire un rapporto più diretto fra markers infiammatori collegati alle coronaropatie e psicopatologia depressiva, Hickman e due colleghi dell’Indiana University School of Medicine (Indianapolis, USA), sfruttando i dati ottenuti dieci anni prima con la National Health and Nutrition Examination survey (NHANES, 1999-2004), hanno verificato il rapporto fra livelli di proteina C-reattiva e due forme di depressione, il disturbo depressivo maggiore e il disturbo depressivo maggiore atipico, ponendo a confronto i dati con quelli di persone non affette da disturbi psichici. L’associazione fra depressione atipica ed alti livelli di proteina C-reattiva è risultata sorprendentemente alta[5], mentre la forma tipica non ha fatto registrare un dato diverso da quello delle persone non affette da disturbi psichici. Hickman e i suoi colleghi concludevano che le persone affette da depressione atipica costituiscono il gruppo realmente portatore del rapporto depressione-infiammazione e, in quanto tale, ad elevato rischio di coronaropatia.

La lettura di questo studio, nell’agosto dello scorso anno, mi ha dato molto da pensare, inducendomi a pormi interrogativi per i quali non ho ancora trovato risposta. Ferme restando le riserve e i dubbi sui criteri diagnostici del DSM, mi sono chiesta se la depressione atipica non sia in termini di fisiopatologia, e magari di patogenesi, un’entità distinta dalla depressione maggiore tipica. In altri termini se, per un tratto comune collegato al tono dell’umore, poniamo nella stessa categoria disturbi diversi. Mi sono chiesta, poi, se non sia il caso di indagare in dettaglio tutte le componenti molecolari, cellulari e dei sistemi che conosciamo quale base della depressione, alla ricerca di eventuali specificità nella depressione atipica: differenze che potrebbero aprire una via maestra per distinguere, anche in termini di prevenzione e trattamento, questo disturbo da altre sindromi depressive. Intanto, attendendo che si concepiscano progetti di ricerca in grado di soddisfare questa esigenza, si potrebbe decidere di richiedere di routine l’esame di laboratorio dei markers dell’infiammazione (non solo quelli collegati con aumentato rischio cardiovascolare) in tutti i casi di depressione lieve, grave o atipica.

Un altro studio che merita di essere conosciuto è stato condotto su un vasto campione in precedenza selezionato in Australia per un progetto di prevenzione sanitaria. Lo studio è stato condotto da ricercatori australiani, statunitensi e cinesi su 865 giovani adulti, prima valutati per la depressione ed altri disturbi mentali, e poi sottoposti a misura del diametro interno dei vasi della retina. Come è noto, il sistema vascolare retinico costituisce una sorta di finestra semeiotica per lo studio dello stato dei vasi di piccolo calibro di tutto il corpo, e la misura del lume di questi vasi è adottata come marker precoce di malattia cardiovascolare.

Dopo il controllo dei dati secondo sesso, età, indice di massa corporea (BMI) e stato di fumatore, i ricercatori hanno rilevato che ad un maggior numero di sintomi di disturbi d’ansia e depressivi, corrispondeva un maggior diametro arteriolare retinico che, naturalmente, rifletteva uno stato simile dei vasi cerebrali e cardiaci.

Non si sa se tale associazione abbia un ruolo causale, ma la stretta corrispondenza rilevata in questo studio, suggerisce la possibilità di identificare precocemente, mediante la diagnosi di sindromi ansiose e depressive, giovani a rischio di malattie cardiovascolari.

L’identificazione precoce, sia di disturbi depressivi atipici, magari associando la ricerca dei markers infiammatori collegati alle coronaropatie, sia di sindromi ansiose e depressive, potrebbe consentire la prevenzione di disturbi cardiovascolari, perché il trattamento sintomatico dei disturbi psichici si è rivelato efficace a tal fine. Uno studio, pubblicato due anni fa, ha messo a confronto pazienti trattati per un anno, con pazienti semplicemente informati e seguiti dal proprio medico curante.

In particolare, pazienti depressi sia portatori di disturbi cardiaci sia privi di patologia cardiovascolare clinicamente rilevabile, sono stati divisi in due gruppi: il primo ha ricevuto psicoterapia e trattamento farmacologico per 12 mesi; il secondo ha ricevuto il suggerimento di un periodico follow-up senza alcun trattamento. Dopo 8 anni, i pazienti che avevano già una malattia cardiaca, presentavano un indice di rischio immutato, sia che appartenessero al gruppo trattato per un anno sia che appartenessero a quello di persone non trattate. Al contrario, le persone che erano affette da disturbi depressivi ma prive di patologia cardiovascolare, se appartenevano al gruppo che aveva ricevuto un anno di terapia psichiatrica presentavano un rischio più basso del 48% di andare incontro ad ictus o infarto del miocardio[6].

Nel complesso, quanto sta emergendo dallo studio dei rapporti fra depressione, infiammazione e rischio cardiovascolare, suggerisce la necessità di un’attenzione precoce ai disturbi della mente, anche in funzione di un prolungamento della vita. E, se da un canto il progresso nella conoscenza delle basi e dei correlati fisiopatologici delle malattie psichiche tende ad avvicinarle sempre più a quelle internistiche, dall’altro l’influenza della psicoterapia e delle condizioni di vita sull’andamento dei disturbi psichici e fisici, ci ricorda che sarebbe un grave errore trascurare la dimensione umana e psicologica della persona.

Una paziente una volta mi ha detto: “La depressione la porta la vita; ed è la vita che deve portarla via”. Non era lontana da un fiducioso atteggiamento attivo che può fare miracoli se si è circondati da persone in grado di supportare e facilitare l’iniziativa, internamente ostacolata da inibizione, negativismo e mancanza di risorse psicofisiche. L’ideale sarebbe riuscire a prevenire o, per lo meno, potersi rendere conto dello sviluppo di una condizione depressiva prima che si stabiliscano i circoli viziosi che rendono inevitabile il ricorso ai farmaci.

La disfunzione monoamminica e la dimensione esistenziale dell’esperienza depressiva costituiscono due livelli distanti e due registri ben distinti; tuttavia coesistono, rappresentando due aspetti della realtà che si influenzano a vicenda. Se lo psichiatra assume questa prospettiva e non si lascia sedurre da istanze integraliste di tipo biologico o, all’opposto, psicologico, secondo cui la depressione “non sarebbe altro che”, potrà aiutare anche il paziente ad includere il dato dell’infiammazione fra i segni relativi all’organismo, senza trascurare l’impegno a modificare le condizioni psicologiche ed esistenziali, e senza correre il rischio di credere che con un adatto antinfiammatorio si possa risolvere un disturbo depressivo.

Capisco - come ebbe a dire qualche anno fa il nostro presidente - che un patologo possa essere attratto dall’idea di descrivere la depressione come malattia infiammatoria: per la prima volta si ricondurrebbe un disturbo psichico al paradigma aureo della patologia, che riportava tutti i quadri clinici a tre ordini di processi di base: infiammazioni, degenerazioni e tumori.

Capirei meno uno psichiatra che, in nome di un riduzionismo di matrice biologica, volesse trascurare l’analisi della dimensione psicologica individuale e relazionale del paziente, volta al fine di individuare fonti e fattori di perdita, stress, frustrazione e inibizione. Analisi necessaria per determinare un cambiamento che possa contribuire alla guarigione e all’assunzione di uno stile di vita in grado di prevenire ricadute.

 

L’autrice della nota invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-13 giugno 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Note e Notizie 11-04-15 Scoperte e aggiornamenti sulle basi neurali della depressione.

[2] Sono passati molti anni da quando il nostro presidente riferì ad un incontro sulla neurobiologia della depressione la tesi secondo cui i processi infiammatori avessero un ruolo centrale nella fisiopatologia depressiva, verosimilmente aggravando condizioni di malattia o rischio cerebrovascolare e cardiovascolare. Fino ad allora la depressione era stata considerata quasi esclusivamente quale conseguenza di tali patologie, e con molte resistenze si accettava la possibilità di un ruolo eziopatogenetico dei disturbi dello spettro dell’ansia nelle sindromi cardiovascolari.

[3] Per chi voglia approfondire, si nota che in Australia questo filone di studi è particolarmente seguito da ricercatori e medici, sia per ciò che concerne l’indagine sui meccanismi molecolari sia con l’analisi epidemiologica nell’ambito di progetti di prevenzione per fini di salute pubblica.

[4] Una bozza del lavoro prima della pubblicazione a stampa è disponibile dal mese di aprile scorso: Hiles S. A., et al., The role of inflammatory markers in explaining the association between depression and cardiovascular hospitalisation. Journal of Behavioral Medicine Apr 3 [Epub ahead of print] 2015.

[5] Il numero degli adulti affetti da depressione atipica con livelli di proteina C-reattiva nel range di rischio cardiovascolare, era all’incirca doppio di quello di coloro che erano affetti da disturbo depressivo tipico o non presentavano disturbi psichici (Cfr. Hickman R. J., et al., Journal of Behavioral Medicine 37 (4): 621-629, Aug 2014).

[6] Lo studio, pubblicato su Psychosomatic Medicine nel 2013, è citato da Tori Rodriguez in Treating Depression Early May Protect the Heart. Sci Am Mind 26 (3): 16, May-June 2015.